Morire a 27 anni. La tragica scomparsa di Amy Winehouse. Una riflessione sul senso della vita

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Morire a 27 anni, come Kurt Cobain, Jimi Hendrix, come Janis Joplin e Jim Morrison, tragicamente, precocemente, dopo aver acquistato cocaina, eroina, ecstasy e ketamina nelle ultime ore di vita. Finisce così la breve parabola umana ed artistica di un’interprete intensa, tormentata e infelice, la cui esistenza è stata tutta all’insegna dell’autodistruzione. Una folle corsa verso una fine inevitabile e certa. Si può descrivere così la fuga della talentuosa cantante nell’alcolismo, nella tossicodipendenza, i tentativi di disintossicazione, tutti ugualmente disperati e fallimentari. Non sono bastati il successo, uno stuolo di fans, l’attenzione della stampa, il favore della critica, 5 Grammy Awards, gli Oscar della musica, vinti nel 2008, a colmare il vuoto di una vita priva di baricentro. La fragile Amy Winehouse va ad aggiungere il proprio nome a quelli annoverati nel club del “27”, lasciandoci qui a riflettere sul senso profondo della vita, impossibile da trovare negli eccessi di una fuga perenne dalla realtà e da se stessi. Chi le era vicino riferisce di averla osservata con angoscia intenta ad uccidersi lentamente, un po’ ogni giorno. Spero che i suoi fans colgano l’occasione, in questo doloroso momento, per fermarsi a pensare alla propria vita e persuadersi che la consuetudine col vizio conduce alla morte spirituale e fisica.

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